giovedì 6 agosto 2015

mercoledì 22 febbraio 2012

LA SENTENZA ED IL PROCESSO

La ribellione si era li­mitata, in effetti, alla liberazione dei detenuti ed al tentativo, per altro fallito, di incendiare il Palazzo Pollicarini dove, in quel momento, era ospitato il Vescovo.
Le fonti non ci riferisco­no di morti e nemmeno di feriti.
La Corte Vescovile si prese, soltanto, una gran paura.
Tuttavia, tornando alla narrazione di Pane e Vino[1], apprendiamo che il Vescovo, invece di perdonare tutti come aveva promesso, cambiò idea, forse a seguito di pressanti sollecitazioni da parte di alcuni traditori ennesi.
E così scomunicò[2] la Città già il 27 Agosto 1627 e cioè a meno di un mese dai fatti, nonostante che il Papa del tempo, Urbano VIII, con lettera del 14 Agosto 1627, a firma del suo Segretario di Stato Cardinal Ottavio Bandini, riportata da De Grossis[3] e da Padre Giovanni[4], lo avesse tuttavia invitato  a "farli prima il processo e con procedere anco nel resto giuridicamente e prudentemente apponghi l'interdetto alla Città .."
Il documento dell’interdetto[5] risulta ancora oggi custodito presso gli "Atti dei Vescovi" dell'archivio dell'Arcive- scovado di Catania e ci viene riportato integralmente nel suo testo in latino dai citati storici coevi Pirri e De Grossis e poi anche da Padre Gio­vanni.
Si tratta di un atto storico di grande importanza,  sbalorditivo per un lettore del XXI secolo.
In esso Innocenzo Massimo comincia con l'affermare che "Un'offesa fatta ai vescovi, essendo inflitta a Cristo, su mandato del quale essi esercitano la carica, crucifige il Signore; coloro che perseguitano i suoi sacerdoti, ipso facto, cadono nei rigori canonici, nella maledizione e nell’anatema ...". E continua che ... "essendo cadute in queste misure la maggior parte del popolo di Castrogiovanni, per quei fatti in cui peccarono contro di noi e contro la nostra dignità episcopale ... lanciamo questa giusta punizione contro tutta quanta detta Città ... che sentiamo nel nostro cuore paterno ...". Pertanto "... “tutta quanta la suddetta Città di Castrogiovanni ed il suo territorio e tutti gli abitanti nell'insieme e presi ad uno ad uno li interdiciamo "a divinis", ordinando categoricamente ... a tutti i Rettori delle Chiese, insieme e ad uno ad uno, ai Ministri, ai Priori, ai Cappellani, ed ai Parroci ... di non celebrare o consentire funzioni religiose; non ammettano alcuno ai sacramenti ... non osino celebrare messe, nè recitare l'ufficio divino, nè benedire matrimoni; non osino accompagnare i corpi dei defunti alla sepoltura ecclesiastica nè facciano pubbliche processioni  ..."
Si può immaginare facilmente quale gravità abbia avuto per i cittadini del tempo tale interdetto che vietava, tra l'altro e come si è costatato, la somministrazione di tutti i sacramenti.
Anche la reazione del potere politico, in un primo tempo, non fu tenera. Il nostro Fra Gieronimo[6], continuando nella narrazione dei fatti, ci dice che il Presidente del Regno, Arrigo Pimantel, Conte di Villada[7], aveva mandato un distaccamento spagnolo per garantire la calma ed evitare, evidentemente, nuovi tumulti.
Nel contempo arrivava a Messina il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la Cueva, Duca di Alburquerque[8] e tutti i Giurati andarono a domandare la grazia per Castrogio­vanni ed il ritiro delle truppe.
Il nuovo Vicerè, in tale occasione, sembrò che avesse accolto le istanze degli Ennesi, ordinando il ritiro delle truppe ed invitando il Vescovo a togliere la scomunica. Tale fu la gioia degli Ennesi che “una procissioni s'ordinau”.Invece, in una nota[9] a margine del suo manoscritto, Padre Giovanni ci dà la notizia che il 5 Dicembre dello stesso anno, su sollecitazione del Vescovo e di altri influenti personaggi, il Vicerè aveva inviato ad Enna Antonio Costa, Giudice della Gran Corte, per istruire il processo. Questi, come ci narra Fra Gieronimo, terrorizzò gli Ennesi a tal punto che molti fuggirono.La sentenza[10], poi, fu particolarmente dura ed addossò la responsabilità del moto ai notabili che non lo avevano impedito. Infatti, condannò due giurati al pagamento di duemila scudi ciascuno, un terzo giurato al pagamento di trecento scudi ed il Capitano al pagamento di quattromila scudi. La sorte dei plebei, pur ritenuti soltanto esecutori materiali, fu ben diversa: cinque furono condannati al carcere a vita ed altri cinque al carcere per dieci anni. Di questi, però, tre morirono in carcere per i supplizi rice­vuti. Cinquanta cittadini circa furono banditi dalla Città .. e “fu spaventu a tutta la Citati, Sentendu la sentenza eseguita”.
[1] Fra Gieronomo, op. cit., ottave 31 e segg.
[2] Vedi nota n.1 nella prefazione.
[3] J. B. De Grossis, Catana Sacra, op.cit., p. 284
[4] Padre Giovanni, op. cit., p. 109.
[5] "Innocentius etc . . . Iniuria quae Episcopis fit, cum Christo, cuius legatione funguntur, inferatur Dominumque crucifigant; qui suos sacerdotes persecuntur; incidantque ipso facto in Canones, ac censuras, maleditiones,  et anathemata bulle in cena domini incurrant; cumque in has inciderit maior pars populi  Civitatis Castri Ioannis per ea quae in nos ac nostram episcopalem dignitatem notorie delinquerunt sub die primi augusti huius praesentis anni 1627. Ideo in iustam totius dictae civitatis afflictionem, quam et nos paternis visceribus sentimus aliisque iustis de causis debita matura ac debita consultatione cum Sanctissimo Domino nostro Urbano Papa VIII° ac sede Apostolica, servatis servandis, ac omni meliori modo totam praedictam civitatem Castri Ioannis eiusque territorium, ac omnes et singulos habitatores generaliter interdicimus, atque a divinis prohibemus districte precipientes sub penis juris atque aljis nostro  arbitrio inferendis omnibus et singulis Ecclesiarum rectoribus et ministris prioribus cappellanis ac parrochis ac personis tam secularibus quam regularibus cuiuscumque ordinis ac sexus ne divina celebrare audeant aut permittant neque ullos ad sacramenta recipiant  preterquam in casibus a iure exceptis, quare nec missas facere neque divina officia celebrare praesumant neque nuptias benedicere aut corpora defunctorum sepulturae ecclesiasticae tradere audeant, aut pubblicas processiones instituant, nihilque prorsus earum agant, quae a jure fieri proibentur tempore generalis interdicti. Datum in urbe Cathanae et in nostro Episcopali Palatio die 26 Augusti 1627".
Dall'originale conservato presso l'Archivio dell'Arcivescovado di Catania e da Padre Giovanni, op. cit., p. 109. 
[6] Fra Gieronimo, op. cit., ottava 35.
[7] Arrigo Pimantel, Conte di Villada, figlio primogenito del Vicerè  Antonio Pimantel, Marchese di Tavora, fu nominato da questi, poco prima di morire il 28 Marzo 1627, Presidente del Regno (vedi Giovanni Evangelista Di Blasi, Storia Cronologica de’ Vicerè, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1790/91. 
[8] Francesco Fernandez de La Cueva, Duca di Alburquerque, già Ambasciatore a Roma alla Corte Pontificia, fu nominato Vicerè del Regno di Sicilia con dispaccio del 30 Maggio 1627, si insediò a Messina nel Settembre dello stesso anno ed a Palermo nel Novembre successivo. (vedi G. E. Di Blasi, op. cit., p. 87).
[9] Padre Giovanni, op. cit., p. 110.
[10] Dato che non è stato possibile trovare il processo e la sentenza della Gran Corte in quanto il relativo fondo fu danneggiato dai bombardamenti del 1943, le notizie riportate sono tratte da Fra Gieronimo, op. cit., ottava 55 e segg.

LA VISITA PASTORALE E LA RIBELLIONE

Viscuvu in Catania ci stetti
Innoccenziu Massimu Romanu
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Regnandu a Roma Papa VIII Urbanu
Fici la Curti di genti imperfetti
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Con questi versi viene data la notizia che, durante il papato di Urbano VIII[1], Innocenzo Massimo[2] era stato nominato[3]  Vescovo della Diocesi di Catania, da cui dipende­va allora anche Castrogiovanni, oggi Enna e che questi, nell'esercizio del suo ministero, si era circondato di persone, quanto meno, imperfette.
E’ con questi stessi primi versi, in ottava rima siciliana, che comincia un poemetto, di notevole interesse storico e glottologico ed anche di qualche pregio letterario, intitolato "Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro il Vescovo Inno­cenzo Massimo Romano" composto da tale Fra Gieronimo Pane e Vino[4], che fu poeta dialettale ennese. Il manoscritto relativo è inserito in altro manoscritto che ci ha lasciato Padre Giovanni dei Cappuccini[5] sulla storia di Enna, dove lo rappresenta anche in effigie con un disegno approssimativo ed elementare e ci dice che "Hieronimus Pane e Vino fuit excellens poeta ennensis".
Data la sua grafia, lo stesso appare copiato da un testo precedente da Padre Giovanni che sembra abbia aggiunto agli errori dei suoi predecessori anche i suoi per cui, in alcuni punti, appare non originale ed, a volte, diviene anche incomprensibile.
In quest'opera si narra, con dovizia di particolari ed in 284 ottave, per un totale di ben 2.272  versi, di un fatto storico avvenuto in Enna nel 1627, sino a poco tempo addietro poco noto ai più[6].
Fra Gieronimo ci racconta che in quell’anno il Vescovo Innocenzo fece una visita pastorale nella Diocesi e già a Piazza Armerina e ad Agira, allora S. Filippo, aveva lasciato un pessimo ricordo per il gran male che aveva fatto. Quando arrivò ad Enna, fece delle cose inaudite incarcerando uomini onorati ed, addirittura, donne incinte ed altre con lattanti.
Non essendo specificato il perché di tanta violenza, cerchiamo di capirne i motivi.
Lo stesso Vescovo, in una sua relazione “ad limina” del 1629[7], cerca di giustificarsi in ordine ai fatti di Enna assumendo che aveva visitato la diocesi per “la estirpazione dei peccati di usura, specialmente quella privata”. Dice ancora che “… con l‘aiuto di Dio, ogni giorno ci rivolgiamo alla riforma dei costumi” e poi che “niente è stato trascurato affinché i decreti del Sacrosanto Concilio Tridentino venissero osservati …” ed, infine, che “sono state difese le giurisdizioni e le libertà conformemente alle sanzioni dello stesso Concilio”. 
Rocco Pirri, nella sua monumentale opera "Sicilia Sacra"[8] del 1638, parlando del Vescovo Innocenzo e dei fatti di Castrogiovanni e ricordando altre sue malefatte, si limita a definirlo "avido del danaro" e mette in evidenza che gli Ennesi lo "accusavano come ladro dei loro beni".
Anche Giovanni Battista Grossi o De Grossis, nella sua “Catana Sacra”[9] del 1654, si limita ad affermare che “A molti tuttavia è sembrato che Innocenzo abbia sbagliato e sia stato avido e cupido senza eguali”
Appare, invece, più preciso e circostanziato Padre Giovanni dei Cappuccini che, nel suo manoscritto citato, ci narra[10] che il Vescovo Innocenzo era venuto ad Enna per la correzione dei costumi ed, essendo questi: "avido del danaro e la sua Corte un puoco libertina, fece fare nuova inquisizione su tutti coloro li quali s'havevano contratti in matrimonio e s'havessero pratticato prima del suo sponsalizio, stante detto Vescovo haver stabilito la pena pecuniaria e, trovando che erano trasgressori molti Castrogiovannesi, pren­devano le moglie, stante l'huomini contrattati con le suddette si ritiravano nelle campagne e parte li carceravano nel pub­blico Castello e parte nel Palazzo, con operando la Corte molte discolerie..."
Il popolo ennese, dopo aver chiesto invano giustizia ai Giurati, saccheggiò ed in parte incendiò il Palazzo Pollicarini dove risiedeva il Vescovo. Poi assaltò il Castello di Lombardia, sede delle  carceri, da dove furono liberati soltanto coloro che vi erano imprigionati per ordine del Vescovo, distruggendo le porte della prigione.
Questi fatti avvennero il primo di Agosto del 1627.
La ribellione, o forse sarebbe meglio dire il tumulto, continuò sino a notte inoltrata senza che si riuscisse a placare, più che il furore, lo sdegno della gente.
Il Vescovo riuscì a sfuggire a stento ai tumul­tuanti nascondendosi prima nel sottotetto e poi abbandonando il palazzo attraverso i tetti; mentre il suo Consigliere Fiscale Don Calcerano Intrigliolo trovò ricovero addirittura dentro una botte.
La calma potè, poi, tornare soltanto dopo l'intervento pacifi­catore del clero locale che portò in processione prima il Sa­cramento e poi la statua della Madonna della Visitazione, Patrona della Città.
"Rimedi efficaci", come riporta Paolo Vetri[11], altro storico ennese, "che collo scendere della notte facevano dissolvere quel popolo, e permettere al Vescovo di uscire dalla tana, il quale riparando pure nella prossima casa dei gesuiti, smarrito ancora, in quel primo momento di coscienza esclamava e ripeteva: la colpa è dello Intrigliolo, perdono a tutti."
Così si concluse, in un solo episodio, il moto popolare senza che, in sostanza, i tumultuanti avessero provocato gravi ed irreparabili danni alle cose e, sopratutto, alle persone.


[1] Urbano VIII (Maffeo Barberini) fu papa dal 1623 al 1644. Parteggiò per la Francia nella guerra dei Trent'anni, durante il suo pontificato fu processato Galileo Galilei e fu condannato il Giansenismo.
[2] Innocenzo, della nobile famiglia dei Principi Massimo di Roma che si diceva discendesse dall’antica famiglia dei Fabii, nacque a Roma nel 1581 da Alessandro Massimo e Olimpia de Cuppis, fu Cubiculario del Papa Leone VI, Vicelegato in Ferrara del Papa Paolo V, Vescovo di Bertinoro, Nunzio straordinario in Savoia, Mantova e Milano e Nunzio ordinario in Firenze ed in Spagna del Papa Gregorio XV, fu nominato Vescovo di Catania il 6 Giugno 1624 (vedi nota che segue). Morì a Catania a 52 anni per un attacco di epilessia il 21 Agosto 1633. Adolfo Longhitano ha tracciato un esaustivo ritratto storico del Nostro in “Le Relazioni “ad limina” della Diocesi di Catania” (1695/1890) Vol. I, Studio Teologico San Paolo, Catania, p.113 e segg.,  in corso di pubblicazione.
[3] In virtù dei poteri conferiti ai Re di Sicilia con la bolla di Papa Urbano II del 5 Luglio 1098, detta della “Legazia Apostolica”, la nomina di Innocenzo avvenne con regia lettera del 6 Giugno 1624 durante il regno di Filippo IV (1605/1665), Re di Spagna e di Sicilia dal 1621, quando succedette al padre Filippo III. Vicerè per il Regno di Sicilia era allora Antonio Pimantel, Marchese di Tavora, nominato il 24 Dicembre 1621 e deceduto in carica il 3 Agosto 1624 per peste. Il Papa Urbano VIII ratificò poi tale nomina nel concistoro del 1° Luglio 1624 per cui Innocenzo, dopo aver preso possesso della diocesi per procura il 5 ottobre successivo, infine arrivò a Catania il 13 giugno 1625. 
[4] Fra Gieronomo Pane e Vino si chiamava in effetti Carlo Francesco Geronimo “Pane e Vino”, era nato l’8 aprile 1666 da Antonio e Rosolia Carruba ed aveva composto in siciliano altre poesie spirituali in occasione della siccità del 1689 e per la liberazione della Città dal terremoto del 1693 (vedi Diego Ciccarelli nella premessa a P. Giovanni dei Cappuccini, Storia di Castrogiovanni, pubblicata a cura di Carmelo Bonarrigo per la Biblioteca Francescana, Palermo, 2009, p. 12 di cui alla nota che segue).
[5] Padre Giovanni da Carbonara, detto dei Cappuccini, "predicatore ed ex lettore di Sagra Teologia",  ci ha lasciato un manoscritto intitolato “Istoria veridica dell’Inespugnabile Città di Castrogiovanni e delle sue antichità e notizie vetuste riportate dalli Autori Istoriografi li quali eccedono il numero di 180 con sue Citazioni Parafrasi e Numeri e Carte raccolte e poste a suo ordine”, comunemente conosciuto come “Storia di Enna”, messo insieme nella forma attuale dal 1720 al 1752, in atto conservato presso la locale Biblioteca Comunale e di cui è stata pubblicata la trascrizione del II° tomo con il titolo “Storia di Castrogiovanni” a cura di Carmelo Bonarrigo per la Biblioteca Francescana, Palermo, 2009. Il detto manoscritto probabilmente è pervenuto, insieme a parecchie altre opere della stessa biblioteca, dai conventi locali a seguito dell'esproprio dei beni ecclesiastici avvenuto dopo l'unità d'Italia con le leggi eversive del 1866 e 1867 che estesero al Regno d'Italia le così dette leggi Siccardi, emanate nel Regno di Sardegna nel 1850.
[6] Nel 2006 è stato pubblicato in proposito ed a cura dello scrivente il volume “La Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania, Un episodio di storia siciliana del 1627” Ed. Lussografica di Caltanissetta.
[7] Le relazioni “ad limina” dovevano essere redatte da tutti i Vescovi e consegnate alla Santa Sede ogni tre anni personalmente o, in caso di impedimento, a mezzo di un procuratore speciale. Quelle del Vescovo Innocenzo Massimo sono pubblicate da Adolfo Longhitano in “Le Relazioni ad limina della Diocesi di Catania (1595/1632)” in Sinoxis I, 1983, p. 225 – 229 e dallo stesso in “Le Relazioni “ad limina” della Diocesi di Catania (1695/1890), op.cit. 
[8] Rocco Pirri, Sicilia Sacra, Lib. III, Ecclesiae Catanensis, Panormi, 1638, pp. 71/73.
[9] Giovanni Battista Grossi o De Grossis, Catana Sacra, Catanae 1654, LXXVII.
[10] Padre Giovanni dei Cappuccini, op. cit., pp. 107/111.
[11] Paolo Vetri, Castrogiovanni dagli Svevi all'ultimo dei Borboni di Napoli, Piazza Armerina, 1887, p. 323.

PREFAZIONE

La Città di Castrogiovanni, oggi Enna, si rivoltò nel 1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo e fu scomunicata[1].
La storia di tale avvenimento e di tutte le vicissitudini successive ha avuto, nei secoli, la sorte particolare di essere stata ignorata o, quantomeno, trascurata dai più sino a qualche anno addietro.
Leggendo l'opera di Paolo Vetri "Castrogiovanni dagli Svevi all'ultimo dei Borboni" venni a conoscenza di questo episodio storico e così appresi che, in proposito, esisteva un poemetto manoscritto in ottava rima siciliana di tale Fra Gieronimo Pane e Vino. Questo documento era custodito presso la Biblioteca Comunale di Enna. Ne ottenni copia e cercai di interpretarlo.
Poi, per anni, mi occupai "sine cura" e saltuariamente dell'argomento.
In occasione di un mio viaggio a Roma riuscii ad essere ammesso nell'Archivio Segreto del Vaticano e lì trovai, con grande emozione, alcuni interessanti riscontri sul Vescovo Innocenzo Massimo, ma nulla sulla rivolta di Enna.
A Palermo, all'Archivio di Stato, mi fu comunicato che il fondo relativo alla Gran Corte, dove potrebbero essere stati conservati gli atti del processo penale conseguente alla rivolta, era stato notevolmente danneggiato dagli eventi bellici del 1943 e non era stato più riordinato.
Presso l'Archivio dell'Arcivescovado di Catania rinvenni negli “Atti dei Vescovi” soltanto l'originale della scomunica.
Poi ebbi a visitare la Cattedrale di Catania e nell’abside lessi  …. INNOCENTIUS MAXIMUS EPISCOPUS FECIT …scritto a lettere cubitali  e, nel transetto di destra, accanto all’altare della Madonna, trovai la tomba dello stesso Vescovo. Il notevole rilievo della scritta di cui sopra, del monumento funebre e della lapide elogiativa, stimolò ulteriormente la mia curiosità.
Continuate quindi le ricerche, rinvenni parecchie fonti sull'argomento, le misi in ordine, le trascrissi e le tradussi. Contemporaneamente cominciai a scrivere una esposizione sintetica dei fatti, con alcune note per inquadrare il periodo storico e qualche commento tratto sia dalle fonti sia da alcuni approfondimenti relativi al Seicento, con qualche riferimento anche agli effetti del Concilio di Trento sugli usi e costumi delle nostre popolazioni.
Nel 2006 pubblicai la prima edizione del mio lavoro intitolandola “La Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania – Un episodio di storia siciliana del 1627”, magnificamente illustrata dal maestro Bruno Caruso e con i tipi dell’Ed. Lussografica di Caltanissetta.
In particolare curai il poemetto di Fra Gieronimo che, purtroppo, non pubblicai per intero per motivi editoriali dato che il volume, illustrato dal Caruso, fu realizzato come libro d’arte, cui mal si adattava l’integrale trascrizione dei versi del poemetto.
Assunsi però con me stesso l’obbligazione di pubblicare per intero il poemetto trascritto, tradotto ed annotato. Adempiendo ora a questo impegno, dò alle stampe una seconda edizione del mio lavoro, in veste economica, sperando di favorirne la diffusione e di sollecitare gli studi in proposito.
Nella prima parte di questa nuova edizione ripropongo, aggiornandola, l’esposizione sintetica dei fatti, con alcune note per inquadrare il periodo storico e qualche ridotto commento.
Nella seconda parte ed in appendice, pubblico oggi la trascrizione fedele del poemetto manoscritto di Fra Gieronimo, prima interpretato e trascritto e poi annotato.
Purtroppo non ho potuto raggiungere lo scopo desiderato di tradurre il testo dal siciliano all’italiano, come mi ero prefisso, dato che i risultati ottenuti non sono stati soddisfacenti.
Nel complesso però il poemetto è leggibile e spero che la sua lettura possa dare ad altri il godimento che ha dato a me.
                                                                                                                                                               L’autore


[1] Parecchie fonti parlano di “scomunica” e non di “interdetto”, come più correttamente avrebbero dovuto. Infatti interdetto, nel diritto canonico. è la pena consistente nell’esclusione di una persona, di una chiesa o di un territorio dai benifici spirituali, senza tuttavia sciogliere chi ne è colpito dalla comunione con la Chiesa, come in effetti avvenne nel caso che ci occupa. La scomunica, che è il termine più comunemente usato e quindi di più facile comprensione, è invece pena diversa e più grave che consiste nell’esclusione dei fedeli oltre che dai sacramenti anche dai loro diritti. (v. Aldo Gabrielli, Il Grande Italiano 2008).