La
ribellione si era limitata, in effetti, alla liberazione dei detenuti ed al
tentativo, per altro fallito, di incendiare il Palazzo Pollicarini dove, in
quel momento, era ospitato il Vescovo.
Le
fonti non ci riferiscono di morti e nemmeno di feriti.
La
Corte Vescovile si prese, soltanto, una gran paura.
Tuttavia,
tornando alla narrazione di Pane e Vino[1],
apprendiamo che il Vescovo, invece di perdonare tutti come aveva promesso,
cambiò idea, forse a seguito di pressanti sollecitazioni da parte di alcuni
traditori ennesi.
E
così scomunicò[2] la Città
già il 27 Agosto 1627 e cioè a meno di un mese dai fatti, nonostante che il
Papa del tempo, Urbano VIII, con lettera del 14 Agosto 1627, a firma del suo
Segretario di Stato Cardinal Ottavio Bandini, riportata da De Grossis[3]
e da Padre Giovanni[4],
lo avesse tuttavia invitato a
"farli prima il processo e con procedere anco nel resto giuridicamente e
prudentemente apponghi l'interdetto alla Città .."
Il
documento dell’interdetto[5]
risulta ancora oggi custodito presso gli "Atti dei Vescovi"
dell'archivio dell'Arcive- scovado di Catania e ci viene riportato
integralmente nel suo testo in latino dai citati storici coevi Pirri e De
Grossis e poi anche da Padre Giovanni.
Si
tratta di un atto storico di grande importanza,
sbalorditivo per un lettore del XXI secolo.
In
esso Innocenzo Massimo comincia con l'affermare che "Un'offesa fatta ai
vescovi, essendo inflitta a Cristo, su mandato del quale essi esercitano la
carica, crucifige il Signore; coloro che perseguitano i suoi sacerdoti, ipso
facto, cadono nei rigori canonici, nella maledizione e nell’anatema ...".
E continua che ... "essendo cadute in queste misure la maggior parte del
popolo di Castrogiovanni, per quei fatti in cui peccarono contro di noi e
contro la nostra dignità episcopale ... lanciamo questa giusta punizione contro
tutta quanta detta Città ... che sentiamo nel nostro cuore paterno ...".
Pertanto "... “tutta quanta la suddetta Città di Castrogiovanni ed il suo
territorio e tutti gli abitanti nell'insieme e presi ad uno ad uno li
interdiciamo "a divinis", ordinando categoricamente ... a tutti i
Rettori delle Chiese, insieme e ad uno ad uno, ai Ministri, ai Priori, ai
Cappellani, ed ai Parroci ... di non celebrare o consentire funzioni religiose;
non ammettano alcuno ai sacramenti ... non osino celebrare messe, nè recitare
l'ufficio divino, nè benedire matrimoni; non osino accompagnare i corpi dei
defunti alla sepoltura ecclesiastica nè facciano pubbliche processioni ..."
Si
può immaginare facilmente quale gravità abbia avuto per i cittadini del tempo
tale interdetto che vietava, tra l'altro e come si è costatato, la
somministrazione di tutti i sacramenti.
Anche
la reazione del potere politico, in un primo tempo, non fu tenera. Il nostro
Fra Gieronimo[6],
continuando nella narrazione dei fatti, ci dice che il Presidente del Regno,
Arrigo Pimantel, Conte di Villada[7],
aveva mandato un distaccamento spagnolo per garantire la calma ed evitare,
evidentemente, nuovi tumulti.
Nel
contempo arrivava a Messina il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la Cueva,
Duca di Alburquerque[8]
e tutti i Giurati andarono a domandare la grazia per Castrogiovanni ed il
ritiro delle truppe.
Il
nuovo Vicerè, in tale occasione, sembrò che avesse accolto le istanze degli
Ennesi, ordinando il ritiro delle truppe ed invitando il Vescovo a togliere la
scomunica. Tale fu la gioia degli Ennesi che “una procissioni s'ordinau”.Invece,
in una nota[9]
a margine del suo manoscritto, Padre Giovanni ci dà la notizia che il 5
Dicembre dello stesso anno, su sollecitazione del Vescovo e di altri influenti
personaggi, il Vicerè aveva inviato ad Enna Antonio Costa, Giudice della Gran Corte,
per istruire il processo. Questi, come ci narra Fra Gieronimo, terrorizzò gli
Ennesi a tal punto che molti fuggirono.La
sentenza[10],
poi, fu particolarmente dura ed addossò la responsabilità del moto ai notabili
che non lo avevano impedito. Infatti, condannò due giurati al pagamento di
duemila scudi ciascuno, un terzo giurato al pagamento di trecento scudi ed il
Capitano al pagamento di quattromila scudi.
La
sorte dei plebei, pur ritenuti soltanto esecutori materiali, fu ben diversa:
cinque furono condannati al carcere a vita ed altri cinque al carcere per dieci
anni. Di questi, però, tre morirono in carcere per i supplizi ricevuti.
Cinquanta cittadini circa furono banditi dalla Città .. e “fu spaventu a tutta
la Citati, Sentendu la sentenza eseguita”.
[1] Fra Gieronomo, op.
cit., ottave 31 e segg.
[2] Vedi nota n.1 nella
prefazione.
[3] J. B. De Grossis,
Catana Sacra, op.cit., p. 284
[4]
Padre Giovanni, op. cit., p. 109.
[5]
"Innocentius etc . . . Iniuria quae Episcopis fit, cum Christo, cuius
legatione funguntur, inferatur Dominumque crucifigant; qui suos sacerdotes
persecuntur; incidantque ipso facto in Canones, ac censuras, maleditiones, et anathemata bulle in cena domini incurrant;
cumque in has inciderit maior pars populi
Civitatis Castri Ioannis per ea quae in nos ac nostram episcopalem
dignitatem notorie delinquerunt sub die primi augusti huius praesentis anni
1627. Ideo in iustam totius dictae civitatis afflictionem, quam et nos paternis
visceribus sentimus aliisque iustis de causis debita matura ac debita
consultatione cum Sanctissimo Domino nostro Urbano Papa VIII° ac sede
Apostolica, servatis servandis, ac omni meliori modo totam praedictam civitatem
Castri Ioannis eiusque territorium, ac omnes et singulos habitatores generaliter
interdicimus, atque a divinis prohibemus districte precipientes sub penis juris
atque aljis nostro arbitrio inferendis
omnibus et singulis Ecclesiarum rectoribus et ministris prioribus cappellanis
ac parrochis ac personis tam secularibus quam regularibus cuiuscumque ordinis
ac sexus ne divina celebrare audeant aut permittant neque ullos ad sacramenta
recipiant preterquam in casibus a iure
exceptis, quare nec missas facere neque divina officia celebrare praesumant neque
nuptias benedicere aut corpora defunctorum sepulturae ecclesiasticae tradere
audeant, aut pubblicas processiones instituant, nihilque prorsus earum agant,
quae a jure fieri proibentur tempore generalis interdicti. Datum in urbe
Cathanae et in nostro Episcopali Palatio die 26 Augusti 1627".
Dall'originale
conservato presso l'Archivio dell'Arcivescovado di Catania e da Padre Giovanni,
op. cit., p. 109.
[6]
Fra Gieronimo, op. cit., ottava 35.
[7]
Arrigo Pimantel, Conte di Villada, figlio primogenito del Vicerè Antonio Pimantel, Marchese di Tavora, fu
nominato da questi, poco prima di morire il 28 Marzo 1627, Presidente del Regno
(vedi Giovanni Evangelista Di Blasi, Storia Cronologica de’ Vicerè,
Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1790/91.
[8]
Francesco Fernandez de La Cueva, Duca di Alburquerque, già Ambasciatore a Roma
alla Corte Pontificia, fu nominato Vicerè del Regno di Sicilia con dispaccio
del 30 Maggio 1627, si insediò a Messina nel Settembre dello stesso anno ed a
Palermo nel Novembre successivo. (vedi G. E. Di Blasi, op. cit., p. 87).
[9]
Padre Giovanni, op. cit., p. 110.
[10]
Dato che non è stato possibile trovare il processo e la sentenza della Gran
Corte in quanto il relativo fondo fu danneggiato dai bombardamenti del 1943, le
notizie riportate sono tratte da Fra Gieronimo, op. cit., ottava 55 e segg.
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