mercoledì 22 febbraio 2012

LA SENTENZA ED IL PROCESSO

La ribellione si era li­mitata, in effetti, alla liberazione dei detenuti ed al tentativo, per altro fallito, di incendiare il Palazzo Pollicarini dove, in quel momento, era ospitato il Vescovo.
Le fonti non ci riferisco­no di morti e nemmeno di feriti.
La Corte Vescovile si prese, soltanto, una gran paura.
Tuttavia, tornando alla narrazione di Pane e Vino[1], apprendiamo che il Vescovo, invece di perdonare tutti come aveva promesso, cambiò idea, forse a seguito di pressanti sollecitazioni da parte di alcuni traditori ennesi.
E così scomunicò[2] la Città già il 27 Agosto 1627 e cioè a meno di un mese dai fatti, nonostante che il Papa del tempo, Urbano VIII, con lettera del 14 Agosto 1627, a firma del suo Segretario di Stato Cardinal Ottavio Bandini, riportata da De Grossis[3] e da Padre Giovanni[4], lo avesse tuttavia invitato  a "farli prima il processo e con procedere anco nel resto giuridicamente e prudentemente apponghi l'interdetto alla Città .."
Il documento dell’interdetto[5] risulta ancora oggi custodito presso gli "Atti dei Vescovi" dell'archivio dell'Arcive- scovado di Catania e ci viene riportato integralmente nel suo testo in latino dai citati storici coevi Pirri e De Grossis e poi anche da Padre Gio­vanni.
Si tratta di un atto storico di grande importanza,  sbalorditivo per un lettore del XXI secolo.
In esso Innocenzo Massimo comincia con l'affermare che "Un'offesa fatta ai vescovi, essendo inflitta a Cristo, su mandato del quale essi esercitano la carica, crucifige il Signore; coloro che perseguitano i suoi sacerdoti, ipso facto, cadono nei rigori canonici, nella maledizione e nell’anatema ...". E continua che ... "essendo cadute in queste misure la maggior parte del popolo di Castrogiovanni, per quei fatti in cui peccarono contro di noi e contro la nostra dignità episcopale ... lanciamo questa giusta punizione contro tutta quanta detta Città ... che sentiamo nel nostro cuore paterno ...". Pertanto "... “tutta quanta la suddetta Città di Castrogiovanni ed il suo territorio e tutti gli abitanti nell'insieme e presi ad uno ad uno li interdiciamo "a divinis", ordinando categoricamente ... a tutti i Rettori delle Chiese, insieme e ad uno ad uno, ai Ministri, ai Priori, ai Cappellani, ed ai Parroci ... di non celebrare o consentire funzioni religiose; non ammettano alcuno ai sacramenti ... non osino celebrare messe, nè recitare l'ufficio divino, nè benedire matrimoni; non osino accompagnare i corpi dei defunti alla sepoltura ecclesiastica nè facciano pubbliche processioni  ..."
Si può immaginare facilmente quale gravità abbia avuto per i cittadini del tempo tale interdetto che vietava, tra l'altro e come si è costatato, la somministrazione di tutti i sacramenti.
Anche la reazione del potere politico, in un primo tempo, non fu tenera. Il nostro Fra Gieronimo[6], continuando nella narrazione dei fatti, ci dice che il Presidente del Regno, Arrigo Pimantel, Conte di Villada[7], aveva mandato un distaccamento spagnolo per garantire la calma ed evitare, evidentemente, nuovi tumulti.
Nel contempo arrivava a Messina il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la Cueva, Duca di Alburquerque[8] e tutti i Giurati andarono a domandare la grazia per Castrogio­vanni ed il ritiro delle truppe.
Il nuovo Vicerè, in tale occasione, sembrò che avesse accolto le istanze degli Ennesi, ordinando il ritiro delle truppe ed invitando il Vescovo a togliere la scomunica. Tale fu la gioia degli Ennesi che “una procissioni s'ordinau”.Invece, in una nota[9] a margine del suo manoscritto, Padre Giovanni ci dà la notizia che il 5 Dicembre dello stesso anno, su sollecitazione del Vescovo e di altri influenti personaggi, il Vicerè aveva inviato ad Enna Antonio Costa, Giudice della Gran Corte, per istruire il processo. Questi, come ci narra Fra Gieronimo, terrorizzò gli Ennesi a tal punto che molti fuggirono.La sentenza[10], poi, fu particolarmente dura ed addossò la responsabilità del moto ai notabili che non lo avevano impedito. Infatti, condannò due giurati al pagamento di duemila scudi ciascuno, un terzo giurato al pagamento di trecento scudi ed il Capitano al pagamento di quattromila scudi. La sorte dei plebei, pur ritenuti soltanto esecutori materiali, fu ben diversa: cinque furono condannati al carcere a vita ed altri cinque al carcere per dieci anni. Di questi, però, tre morirono in carcere per i supplizi rice­vuti. Cinquanta cittadini circa furono banditi dalla Città .. e “fu spaventu a tutta la Citati, Sentendu la sentenza eseguita”.
[1] Fra Gieronomo, op. cit., ottave 31 e segg.
[2] Vedi nota n.1 nella prefazione.
[3] J. B. De Grossis, Catana Sacra, op.cit., p. 284
[4] Padre Giovanni, op. cit., p. 109.
[5] "Innocentius etc . . . Iniuria quae Episcopis fit, cum Christo, cuius legatione funguntur, inferatur Dominumque crucifigant; qui suos sacerdotes persecuntur; incidantque ipso facto in Canones, ac censuras, maleditiones,  et anathemata bulle in cena domini incurrant; cumque in has inciderit maior pars populi  Civitatis Castri Ioannis per ea quae in nos ac nostram episcopalem dignitatem notorie delinquerunt sub die primi augusti huius praesentis anni 1627. Ideo in iustam totius dictae civitatis afflictionem, quam et nos paternis visceribus sentimus aliisque iustis de causis debita matura ac debita consultatione cum Sanctissimo Domino nostro Urbano Papa VIII° ac sede Apostolica, servatis servandis, ac omni meliori modo totam praedictam civitatem Castri Ioannis eiusque territorium, ac omnes et singulos habitatores generaliter interdicimus, atque a divinis prohibemus districte precipientes sub penis juris atque aljis nostro  arbitrio inferendis omnibus et singulis Ecclesiarum rectoribus et ministris prioribus cappellanis ac parrochis ac personis tam secularibus quam regularibus cuiuscumque ordinis ac sexus ne divina celebrare audeant aut permittant neque ullos ad sacramenta recipiant  preterquam in casibus a iure exceptis, quare nec missas facere neque divina officia celebrare praesumant neque nuptias benedicere aut corpora defunctorum sepulturae ecclesiasticae tradere audeant, aut pubblicas processiones instituant, nihilque prorsus earum agant, quae a jure fieri proibentur tempore generalis interdicti. Datum in urbe Cathanae et in nostro Episcopali Palatio die 26 Augusti 1627".
Dall'originale conservato presso l'Archivio dell'Arcivescovado di Catania e da Padre Giovanni, op. cit., p. 109. 
[6] Fra Gieronimo, op. cit., ottava 35.
[7] Arrigo Pimantel, Conte di Villada, figlio primogenito del Vicerè  Antonio Pimantel, Marchese di Tavora, fu nominato da questi, poco prima di morire il 28 Marzo 1627, Presidente del Regno (vedi Giovanni Evangelista Di Blasi, Storia Cronologica de’ Vicerè, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1790/91. 
[8] Francesco Fernandez de La Cueva, Duca di Alburquerque, già Ambasciatore a Roma alla Corte Pontificia, fu nominato Vicerè del Regno di Sicilia con dispaccio del 30 Maggio 1627, si insediò a Messina nel Settembre dello stesso anno ed a Palermo nel Novembre successivo. (vedi G. E. Di Blasi, op. cit., p. 87).
[9] Padre Giovanni, op. cit., p. 110.
[10] Dato che non è stato possibile trovare il processo e la sentenza della Gran Corte in quanto il relativo fondo fu danneggiato dai bombardamenti del 1943, le notizie riportate sono tratte da Fra Gieronimo, op. cit., ottava 55 e segg.

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